Intervista a Valeria Usala

Valeria Usala è nata a Cagliari nel 1993 ed è un ex alunna del liceo Pacinotti, si è Laureata in Lingue e comunicazione, ha poi conseguito un diploma in Filmmaking all’Ateneo del cinema di Roma e un diploma in Storytelling presso la Scuola Holden di Torino. Il suo romanzo d’esordio “La Rinnegata” è stato pubblicato ad aprile 2021, edito dalla Garzanti. Il libro è rimasto per un lungo periodo nei primi posti delle classifiche di vendita, tanto da vedere la seconda edizione pubblicata quasi subito, ricevendo da svariate parti critiche sempre molto positive.

Valeria UsalaIl romanzo ambientato in Sardegna affascina per la sua narrazione quasi corale, che a tratti dà la sensazione che sia il paese intero, dove si svolge la storia, a narrare un evento dimenticato ma calata profondamente nelle atmosfere della Sardegna antiche, suggestive e magiche e che mettono in risalto la storia della protagonista del romanzo. Pubblichiamo qui una breve intervista.

– Cosa le ha dato l’ispirazione per la trama de “La Rinnegata”? È la stessa cosa che l’ha movimentata per scrivere il libro o ci sono stati altri fattori?
– In realtà, la storia e i personaggi del libro sono in gran parte ispirati a una vicenda che ha coinvolto una donna realmente esistita: la nonna di mio nonno. Ho scoperto cosa le fosse successo proprio quando ero in cerca di una storia da scrivere, e il primo pensiero è stato che non poteva essere un caso! Ho sentito subito che fosse l’occasione giusta per scavare nella memoria della mia famiglia ed elaborare dei pensieri su temi tristemente molto attuali tramite una vicenda passata. Col tempo però quell’occasione si è trasformata in vera e propria necessità; mi è bastato seguire i personaggi lungo le strade di Lolai per capire da loro come sarebbe andata a finire.

– A giudicare dall’ambientazione della storia ho avuto la forte impressione che lei sembra avere un forte legame con la nostra terra. Come descriverebbe questo legame?
– Nascere e crescere in Sardegna per me è, da sempre, croce e delizia. L’idea di essere circondati dal mare mi dà spesso la sensazione di essere libera e prigioniera insieme. Ho sempre visto il viaggio come un’occasione preziosissima di crescita e di scoperta, ma ogni volta che mi allontanavo da casa sentivo che l’isola mi mancava quanto le persone che avevo lasciato. E credo che il romanzo rifletta questa ambivalenza: è stato scritto in parte quando ero lontana e in parte quando sono tornata.

– C’è qualche storia in particolare che le farebbe piacere raccontare? Quali altri progetti ha per il futuro a livello di scrittrice?
– A quasi un anno dall’uscita de La Rinnegata, sento di aver finalmente lasciato questa storia libera di viaggiare da sola. Il processo non è stato facile, ma ho ricevuto molto più di quanto ho dato e credo che avesse ragione Stephen King a dire che “le storie non si creano, ma si trovano”. L’importante è non arrendersi alla fatica e godersi il piacere che un lavoro misterioso come la scrittura è in grado di regalare. Al momento giusto, sarà una nuova storia a trovarmi.

– Come mai ha scelto il Liceo Pacinotti come scuola, in quali anni ha frequentato e che ricordi conserva? Quale è stato il successivo percorso universitario?– Devo fare una confessione piuttosto banale: a quattordici anni avevo davvero poche certezze e tanti dubbi, nessuna materia preferita e una dignitosa paura del greco. Perciò il liceo scientifico è stato il risultato di una scelta per esclusione; ma a posteriori posso dire di essere stata fortunata per almeno due motivi. Il primo è il gruppo classe: crescere insieme ci ha unito fino a diventare una piccola famiglia, e nonostante ora abbiamo preso strade diverse, continuiamo ancora a vederci e volerci bene come se il tempo non fosse passato. Il secondo sono gli insegnanti: per me è stato molto prezioso, prima di continuare gli studi in lingue, all’università, vedere la passione negli occhi e nelle parole di chi ha scelto l’educazione come mestiere. Purtroppo non capita spesso, e proprio per questo non lo ho mai dato per scontato. Credo che trasmettere l’umanità, molto prima di qualunque nozione, faccia davvero la differenza.

di Beatrice Assorgia


DAL PROLOGO DEL ROMANZO

Siamo i piedi scoperti e i bastoni intagliati di chi cammina sotto il sole in attesa del vento. Se muori senza essere stato prigioniero e libero insieme, non hai mai vissuto.

Siamo le braccia robuste e le mani ingorde dei contadini che non vanno in pensione. Se vivi di semina e raccolto non puoi avere grandi sogni, solo grandi speranze.

Siamo i sorrisi calorosi e beffardi di chi accoglie lo straniero tra curiosità e diffidenza. Ogni incontro un esodo, ogni scontro un’invasione. Siamo lo sguardo inquisitorio e l’udito esperto di chi conduce il gregge e inforna il pane.

Siamo le urla innocenti dei bambini e i silenzi vendicativi dei vecchi.

Siamo le preghiere in ginocchio, i canti intorno al fuoco, le parole di troppo macchiate dal vino.

Il profumo del mirto, il tronco del ginepro, l’acre odore del formaggio.

Del maestrale abbiamo l’ostinazione, del mare la trasparenza; indossiamo veli neri che annunciano disgrazie.

La Sardegna ha un’unica bandiera, ogni paese il suo martire. La nostra è una donna di nome Teresa, e la sua morte è rimasta per troppo tempo un segreto.

Nessuno ne parla, qualcuno domanda, tutti ricordano.

Teresa è stata uccisa, ed è tutta colpa nostra.

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